giovedì 26 gennaio 2012

"CONTUS" - Il mio funerale

Capitava spesso che mentre leggevo un libro il pensiero mi portasse fuori dalle sue righe, spostando l’attenzione a quelle che erano le mie emozioni e le mie sensazioni, quelle che in quel momento mi bruciavano dentro e fuori.  Perché magari leggendo certi passi la mente vagava, pensava, e le righe successive a quelle che m’avevano colpito non avevano importanza, il mio pensiero era ormai altrove e magari anche senza senso come il fumo di quelle sigarette, che si disperdeva così indisturbato  portandosi con sé un altro po’ di vita, ma di questo non me ne fregava un benché bel cazzo. E allora mi trovavo a riportare i miei pensieri su carta, proprio come ora, lanciato dal brivido delle emozioni e dall’entusiasmo di fare qualcosa che qualcuno al di sotto di me non riusciva a fare. Ma anche questo non mi rendeva né sereno, né contento  e quindi tantomeno mi appagava. Però comunque ridevo  un pochettino sotto i baffi.


In quel momento Pirandello narrava di quel che doveva essere il suo suicidio, nella persona del fu Mattia Pascal,  culminato nel riconoscimento del suo cadavere in una di quelle che erano proprietà di famiglia in una vita agiata e senza troppi pensieri, ma che poi avevano perso per colpa di un’amministrazione sbagliata degli averi. E quella che era la costernazione e l’angoscia di moglie e suocera, tanto ipocrita, tanto cruda e cinica, poiché tanto era insensato lui per loro che troppo presto ne riconobbero il cadavere che invece non era il suo. E questo mi fece sorridere. Il mio pensiero andò invece a quello che spesso mi capitava di immaginare:  il mio funerale.  Come sarebbe stato?

Sono sempre stato dell’idea che la gente non ti riconosce i meriti fino a quando non vieni a mancare. E lì, vuoi per l’ipocrisia, vuoi per il riconoscere che poi tanto male non eri e anche se tanto male fossi stato comunque non meritavi d’andartene, tutti si accorgevano in un lampo che tu valevi, eccome se valevi.
Immaginavo tutte quelle che avevo scopato anche solo per una notte e senza pagarle oltretutto, come si deve a quelle che credon d’essere le donne migliori con la figa  di platino contornata di Swarowsky e che invece si concedevano a me lercio, sporco, porco, maniaco e che in cambio altro non poteva dare che cazzo, mani, bocca, lingua e altro di difficile comprensione. Il mistero dell’eros donato. Chissà se loro avrebbero pianto, nel rimpianto di aver perso l’occasione di scoprire che dietro al cazzo c’era qualcosa di molto più grande e coinvolgente; chissà se la loro costernazione sarebbe stata degna della suocera e della vedova del Pascal o se invece avrebbero pianto sul serio per ciò che sarei potuto essere. 

E gli amici? Oh, di quello son sicuro. Loro m’avrebbero pianto davvero. Gli Amici, s’intende, non i conoscenti. I conoscenti sapevano ben poco di me, se non l’aspetto che balzava più all’occhio, quello del cazzone che fa le battute divertenti sul sesso, maschilista, avido, cinico, spietato donnaiolo che senza il sesso non  sapeva vivere. Ma gli Amici…chi m’aveva conosciuto e che di me aveva assaporato quanto di meglio si potesse chiedere ad un amico. Le lacrime loro sarebbero state sincere come un sole d’estate che scalda i giorni bui, come il pianto di un bambino e il suo successivo stupore e la sua gioia per un giocattolo nuovo. Si sarebbero ricordati però anche loro delle serate passate con me, quelle altamente alcoliche, dove ridevamo in falsa allegria, accompagnati in ogni passo e in ogni locale dal più perfetto Dioniso. E poi si sarebbero ricordati di me che li aiutavo a riflettere, che facevo uscire da loro i malanni interiori e li aiutavo a curarli, nel mio piccolo. E mi ringraziavano ancora una volta, che non era neanche l’ultima sicuramente. Confermandomi ancora una volta la stima che forse in quei momenti a loro sembrava di non avermi mai riconosciuto, ma che invece io avevo carpito dal loro sorriso grato. Sempre.

E i miei? Come si sarebbero comportati? Mio padre avrebbe pianto sicuramente, senza far vedere la sua disperazione, lui che m’aveva sempre disprezzato nel suo amore di padre, per come ero, per come pensavo, per come vestivo e per quel che facevo, che non era niente o quasi di quello che avrebbe voluto. Mia madre invece si sarebbe proprio disperata, in quella che era la sua forza. Molto probabilmente avrebbe anche ritardato l’ingresso della bara nel loculo avvinghiandosi su di essa per non lasciarla partire per l’ultimo definitivo viaggio. Mia sorella, che mai m’aveva conosciuto e a cui oggi leggo negli occhi una grande curiosità nei confronti dei miei pensieri avrebbe trovato lì il rimorso più grande: quello di non essere mai stata in sintonia con me, di non aver mai capito quello che veramente pensavo e sentivo, il perché del mio comportamento bizzarro e sicuramente fuori dalle righe, il mio atteggiamento restìo nei suoi confronti. Magari anche pentendosi del fatto di non aver mai vissuto una delle mie serate al massimo, insieme a me, tra droga, alcol, fumo e puttane.

Ed io? Io sarei stato lì, presente a quella rappresentazione teatrale di un dramma. Il dramma più grande sarebbe stata sicuramente l’ipocrisia, ma io avrei sicuramente riso di tutto ciò. Mi sarei avvicinato uno ad uno alle persone presenti, a quelle cui non avevo magari neanche mai  rivolto uno straccio di un misero saluto e che invece erano lì, magari anche tra le lacrime. Tutt’ad un tratto diventavo una grande persona e tutto andava a coprire quelle che erano state le mie malefatte nei loro confronti, i miei silenzi, i miei rumori ed i miei casini. Magari qualcuno che m’aveva beccato in casa sua mentre mi scopavo inogniqualmodo la sorellina allegra e si era alquanto alterato, in quel momento ipocritamente desiderava d’avermi avuto come cognato. E che cognato divertente sarei stato, grande persona sarei stato, io! Da che mondo è mondo, nessuno si accorge di quanto siamo grandi e della potenza che abbiamo dentro fino a quando non veniamo a mancare. La morte unisce ciò che la vita ha sempre separato, siamo più grandi da morti che da vivi. Ma che cazzo di mondo è questo? Che cazzo serve tenere gli occhi chiusi per il pregiudizio? L’importante però, il fatto che mi faceva star tranquillo a questo pensiero era che presuntuosamente pensavo di sapere tutto di quel giorno e sorridevo di tutto ciò. Chi è cieco, se non viene curato, rimarrà cieco per sempre. Per conto mio, non smetterò mai di dire a chi se lo merita quanto è grande.

E un’altra cosa: mi tocco violentemente i coglioni perché, IN CULO AL MONDO, SONO ANCORA VIVO E AMO LA VITA E ME STESSO SOPRA OGNI ALTRA COSA.
QUINDI FANCULO.

CIAO.


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